Meretricio in Condominio

Giuliana Bartiromo – avvocato
Maria Rosaria Monsellato – Consulente fiscale a.l.a.c. e a.p.p.c
Redazione “Il Condominio Nuovo


Negli ultimi anni si è diffuso un fenomeno che desta interesse e allo stesso tempo preoccupazione da parte di molti condòmini che lamentano la presenza di prostitute nel proprio edificio.

Si rende opportuno precisare che in questa sede non si disquisirà della morale o dell’etica, nè delle motivazioni che possono condurre ad una tale scelta. Ci si limiterà a valutare un fenomeno che sta entrando prepotentemente nella  vita condominiale e ne sta diventando un importante aspetto. Spesso, o forse sarebbe meglio dire quasi sempre, nel momento in cui i condomini vengono a conoscenza che una prostituta svolge la sua attività nel palazzo si instaura una vera e propria caccia alle streghe che ha come unico obiettivo quello di allontanarne il “problema”.

E così in prima istanza si fa ricorso all’amministratore il quale ha in merito davvero pochi poteri. Restando la prostituzione attività lecita tra le mura domestiche (si ricorda infatti che la legge Merlin è diretta a tutelare la non punibilità di chi si prostituisce, contrastando però lo sfruttamento ed il favoreggiamento della prostituzione), un idoneo strumento per combatterla potrebbe essere rappresentato dal regolamento di condominio.

Bisogna precisare, altresì, che unicamente il regolamento contrattuale (per intendersi quello predisposto dall’originario costruttore ed accettato dagli acquirenti dei singoli appartamenti, o approvato dalla totalità dei componenti il condominio) può essere fonte di limitazioni, generali o particolari per i singoli partecipanti, relativamente all’utilizzo delle unità immobiliari di proprietà esclusiva. L’amministratore, pertanto, potrebbe far valere quelle formule di stile quali “turbamento della quiete, della tranquillità dei condòmini, contrarietà all’igiene, alla signorilità ed al decoro dell’edificio e pensare di raggiungere in tal modo la prova dell’esistenza di un condominio “a luci rosse”, con via vai di gente poco raccomandabile, schiamazzi notturni, ecc. Dopo aver “denunciato” la situazione incresciosa all’amministratore, i condòmini passano alla fase successiva: interpellare la forza pubblica.  Ora, al di là di qualche caso, anche questa non può intervenire se non viene tenuto un comportamento lesivo del buon costume o non si ravvisa un reato.

Ultimamente, però, si sta facendo strada tra i condòmini più perseveranti un’altra possibile soluzione per raggiungere lo scopo prefissato: rivolgersi alla finanza.

Strano? No. Di fatto viene attuata quella che in economia viene definita una minaccia credibile: si comunica alla persona interessata che se non intende porre fine alla sua attività o se non decide di andarsene verrà denunciata per evasione fiscale. Questa minaccia, nella maggior parte dei casi sortisce l’effetto desiderato, e così “l’indesiderata presenza” lascia l’appartemento.

Come detto, però, non sempre tale minaccia permette di raggiungere l’obiettivo tanto agognato. Occorre, infatti, fare alcune precisazioni che ai più risultano sconosciute, vale a dire che le prostitute possano anche essere in regola con il Fisco. La tassabilità degli introiti scaturiti da attività di meretricio balza periodicamente all’attenzione dell’opinione pubblica, vuoi per la necesità di rimpinguare le casse della cosa pubblica, vuoi per risollevare le sorti dell’economia flaggellata dalla crisi. Ridurre, però, il problema ad una mera quantificazione economica risulta essere non solo riduttivo, ma soprattutto superficiale.

È opportuno ricordare per nostra memoria, che per il diritto italiano la prostituzione continua ad essere lecita e, pertanto, in virtù di tale principio, chiunque è libero di offrire le proprie prestazioni sessuali in cambio di un corrispettivo, sia esso in denaro o in altra utilità suscettibile di valutazione economica. Ad essere illecito, invece, è lo sfruttamento ed il favoreggiamento della prostituzione ex art. 3 L. 75/1958 (la c.d. Legge Merlin).

Ora, se il diritto penale disciplina il fenomeno in maniera precisa, altrettando non avviene in materia tributaria, generando una problematica di non poco conto. L’art. 53 della Costituzione Italiana sancisce, infatti, che “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. […]” 

Il rispetto di tale principio è fondamentale, in quanto sta a fondamento della progressività della tassazione del reddito, oltre ad avere il precipuo scopo di impedire l’attuazione di comportamenti elusivi.

Il punto focale è, quindi, comprendere come si incardinano gli introiti derivanti da prostituzione. Occorre, cioè, comprendere se tali introiti possano essere inquadrati come forme reddituali. È incontestabile che le meretrici offrono un servizio e, pertanto, il compenso scaturente dovrebbe essere definito come vero e proprio reddito.

L’italia come tutti sanno è un paese di Civil Law, vale a dire è una nazione in cui è il diritto che definisce le massime di comportamento cui tutti devono attenersi. Pertanto, è fondamentale capire se qualche strada è stata resa percorribile dalla dottrina ovvero dalla giurisprudenza. Ebbene la Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che essendo lecita l’attività di prostituzione, i guadagni da essa scaturenti sono equiparati ai guadagni derivanti da tutte le altre attività economiche e, pertanto, sono tassabili a tutti gli effetti. Nel contempo, però, non definisce in quale categoria reddituale debbano essere inquadrate tali prestazioni.

A parere di chi scrive queste sono ravvisabili come attività esercitate da parte di un lavoratore autonomo, cui sono correlati i corrispondenti adempimenti fiscali. Fin qui tutto bene. O per lo meno apparentemente.

Come detto, sebbene il mercimonio del proprio corpo non sia illegale, le prostitute non “esistono” in quanto categoria professionale. Così, di fatto, i proventi derivanti da esercizio della prostituzione non sono tassabili perchè non ascrivibili a nessuna categoria di reddito di cui all’art. 6 del T.U.I.R. E questo è un problema, in quanto impedisce loro di mettersi in regola. Da questa lacuna scaturiscono conseguenze fiscali di particolare rilevanza, in quanto il possesso di immobili o di altri beni che richiedono manifestazione di capacità reddituale potrebbero far scattare l’accertamento induttivo da parte dell’Agenzia delle Entrate, cui deve sommarsi l’omessa dichiarazione.

Sbaglia, infatti, chi ritiene che tali redditi non debbano essere tassati perchè non riconosciuta la categoria professionale. Le Commissioni Tributarie, infatti, sono solite rigettare i ricorsi proposti dai contribuenti che provano a giustificare la non imponibilità delle somme loro contestate per il sol fatto che si tratta  di un’attività discutibile sul piano morale oppure perchè declamano come risarcitoria la natura dei proventi. Al contrario, per vedere accolto il ricorso è necessario dimostrare in maniera inequivocabile il non assoggettamento impositivo che può, ad esempio, derivare da espressa volontà del legislatore. Circostanza questa attualmente non prevista. Basti pensare che gli stessi giudici della Suprema Corte CEE hanno definito la prostituzione un’attività economica in quanto “costiuisce una prestazione di servizi retribuita”.

Ovviare a queste problematiche è comunque possibile, in quanto esistono delle valide soluzioni alternative che permettono, a chi lo desideri, di sanare la propria posizione nei confronti del Fisco. Con buona pace dei condomini che dovranno adattarvisi o cercare altre soluzioni.


Tratto dalla sezione “Attualità” de “Il Condominio Nuovo. Per leggere molti altri interessanti articoli collegati a: shop.ilcondominionuovo.it e abbonati alla rivista.

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